Capita che in certi momenti, dopo aver faticato tanto, aver sofferto molto, ci si senta finalmente fuori dal tunnel. È bellissimo, le difficoltà incontrate appartengono al passato, sono ormai andate e ora l’oscurità e il suo pesante carico emotivo lasciano spazio solo alla luce e ad un senso di gioiosa leggerezza. In certi casi questo è proprio vero, come quando portiamo a termine un faticoso percorso di studi, un lavoro difficile e travagliato, a volte anche quando riusciamo a chiudere una relazione diventata ormai tossica; ma per le questioni personali interne, generalmente, non è così semplice. La faccenda è spesso più sfumata e complessa, pensiamo ad esempio ai vari tunnel dell’ansia, dell’angoscia, del panico, della depressione, del senso di inadeguatezza, del senso di colpa…
Se ne esce una volta per tutte dal tunnel? A volte si (in certi casi in cui le questioni sono specifiche e circoscritte) ma altre volte no, non se ne esce una volta per tutte e questo significa che sarà inverosimile credere che se, per esempio, soffriamo d’ansia non l’avremo mai più; oppure che se una determinata questione ci deprime non passeremo più per qui cupi territori emotivi.
E allora cosa può fare la psicoterapia? se non se ne esce del tutto è o siamo un fallimento? Stando nella metafora, una buona psicoterapia può aiutarci a stare nel tunnel con meno disagio e anche ad uscire dal tunnel stesso, ma non portandoci fuori magicamente e definitivamente (come promettono illusoriamente di fare certi farmaci e anche certi ciarlatani) ma insegnandoci a conoscerci, a conoscerlo e ad attraversarlo.
Perché nella vita di tunnel ce ne saranno tanti, alcuni molto lunghi, altri meno, e magari molti saranno collegati alle medesime tematiche, ai nostri soliti punti deboli. Spesso questo non è un aspetto facile da accettare perché la nostra parte bisognosa di sollievo e idealizzante vorrebbe non incontrarne mai più di tunnel e ha la pretesa che la nostra crescita personale proceda sempre in modo lineare/incrementale. La realtà è un’altra ed è ben illustrata dalla vignetta qui sotto.
Così, anzichè far tesoro di come siamo usciti dal tunnel precedente e utilizzare quell’esperienza per affrontare con fiducia il prossimo che incontreremo, andiamo in crisi e può capitare che ci sentiamo un fallimento. Durante la psicoterapia capita di accorgersi con sconforto di tornare sempre sulle stesse tematiche e questo di solito genera un grande senso di delusione misto a rabbia, impotenza e mancanza di senso, perché ci sembra di essere punto e a capo. Quest’evenienza si presenta più frequentemente quando qualche evento interno o esterno impatta su di noi in modo tale che anche ciò che pensavamo di aver conquistato ci sembra essere andato irrimediabilmente perduto, insieme al valore intrinseco stesso che aveva avuto per noi quella conquista personale.
Per la mia esperienza, il più delle volte non è così e si tratta spesso di un momento fisiologico in cui perdiamo (appunto momentaneamente) la nostra centratura e con essa anche la fiducia in noi stessi. Non scordiamoci poi che più siamo consapevoli e più viviamo intensamente, divenendo così esseri umani sensibili, forti nella propria fragilità, che sono in contatto con tutto ciò che sentono, nel bene e nel male. Questa è la croce/delizia dell’essere consapevoli.
Ne vale la pena o è un fallimento? Beh, ad ognuno la sua risposta…
Condivido queste parole sul “fallimento” di Lowen, davvero anacronistiche nell’era del “successo”.
“Il fallimento ha sempre avuto un effetto positivo su di me, è stato il mio migliore maestro: mi ha costretto a fermarmi e a considerare il mio comportamento autodistruttivo.
Mi ha dato la capacità di cominciare da capo con tutta la vitalità e l’entusiasmo che comporta un nuovo inizio.
Accettando il fallimento mi sono liberato dalla lotta per superare il senso interiore di fallimento.
Accettare il fallimento non è sintomo di rassegnazione, ma di accettazione di sé.
Accettare il fallimento libera l’energia legata alla lotta per il successo e l’autoaffermazione, rendendo cosi possibile la crescita”
“In un certo senso, ogni terapia che ha successo si conclude con un fallimento. Non si raggiunge la propria immagine di perfezione. Il paziente si rende conto che avrà sempre dei difetti. Sa, tuttavia, che la sua crescita non è terminata e che il processo creativo iniziato in terapia è adesso sotto la sua personale responsabilità. Non termina la terapia camminando su una nuvoletta. Chi lo fa è destinato alla ricaduta. Chi invece rimane con i piedi per terra, ha imparato ad apprezzare la realtà e ha sviluppato un atteggiamento creativo verso i problemi che incontrerà. Ha sperimentato la gioia, ma anche il dolore. Se ne va con un senso di auto-realizzazione che comprende il rispetto per la saggezza del suo corpo. ha riguadagnato il suo potenziale creativo”
Ps: col termine “corpo” Lowen include anche quella dimensione viscerale/emotiva autentica del nostro sentire, quella che potremmo definire come la nostra bussola interiore a cui far riferimento per orientarci nella vita.